CHIUSI in casa, annoiati, senza il confronto col mondo esterno, se non mediato da schermi di smartphone. Mentre la dispensa è sempre lì a disposizione, facile promessa di conforto. È stato il destino di molti, nel corso del lockdown, “quando infatti i disturbi del comportamento alimentare (dca) hanno subito un aumento di circa il 30%. Ma in questo 30% ci sono soprattutto i giovani”, dice Deborah Colson, psicologa e psicoterapeuta clinica dell’ARP, Associazione per la Ricerca in Psicologia clinica di Milano e responsabile di FoodNet un progetto di prevenzione dei dca nato nell’ambito di ARP e pensato per i bambini delle ultime classi delle scuole elementari “perché l’età d’esordio dei dca si manifesta sempre più spesso tra gli 8 e i 12 anni – dice l’esperta – quindi bisogna agire d’anticipo: si fanno campagne di prevenzione per tante patologie, e giustamente, ma non per i dca, che, va ricordato, nei casi più gravi possono essere mortali”.
Più nel dettaglio, in che modo le misure di mitigazione dell’infezione da Sars-Cov-2 possono aver influenzato, e complicato, la relazione tra i giovanissimi e il cibo? “Il confinamento in casa ha privato tutti della possibilità di un confronto col mondo esterno ma, per chi ha 10-13 anni il confronto è vitale. A quell’età hai bisogno di conferme, di sapere che quello fai va bene. Dovevo fare bene un compito, e l’ho fatto. Dovevo fare punti per mia squadra di atletica, e li ho fatti. Ma se non puoi fare nulla, non puoi nemmeno accedere a una valutazione di come stai andando: a 13 anni stare sempre in casa non è noia, è noia solo apparente: è mancanza di conferme, di ok dal mondo, potremmo dire. Una mancanza che aumenta il senso di insicurezza. Il rischio allora è di cercare conforto nel cibo, che nel frattempo è lì, a disposizione h24. Così come h24 sono presenti i genitori, con i quali un preadolescente ha per sua natura relazioni sempre un po’ complesse”, dice Colson.
A proposito di genitori e relazioni complesse, nei periodi più duri del lockdown tanti adulti si sono preoccupati per i figli giovanissimi, allarmati da comportamenti strani, anche nei confronti dell’alimentazione. “E’ così, a un anno dall’inizio di questa pandemia, l’osservatorio FoodNet ha registrato un importante aumento delle richieste d’aiuto allo sportello d’ascolto online di adulti di ogni parte d’Italia preoccupati perché si accorgono di comportamenti strani dei figli in relazione al cibo, per i quali cercano spiegazioni e informazioni su come affrontarli. Bisogna imparare a distinguere: il vero disturbo alimentare non è mai flessibile, impone rigidità di pensiero, è pervasivo, domina la mente, inchioda la ragazza o il ragazzo a una scelta. Se c’è ragionevolezza, se per esempio una ragazza o un ragazzo dicono non vorrei mangiare pasta tutti giorni, si può seguire la sua indicazione. In ogni caso oggi osserviamo sempre di più disturbi misti: non sono più problemi di anoressia ma di atteggiamenti di restrizione alimentare esagerate che dopo qualche settimana scatenano fame esagerata: si passa dalla restrizione all’abbuffata. Per l’80% si tratta di femmine”.
Colson, dicevamo, è responsabile di FoodNet un progetto senza fini di lucro di prevenzione primaria dei dca che coinvolge specialisti e direttamente bambini di 9-10 anni, insegnanti e genitori attraverso 3 incontri in aula e un incontro con genitori e insegnanti.
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“Per ora abbiamo coinvolto 28 classi in Lombardia, Liguria e Emilia Romagna, ma vorremmo estendere questo modello in tutta Italia. Utilizzando materiali colorati, gioco, cartoni animati, attività di gruppo l’idea è di rendere i bambini consapevoli che gli esseri umani mangiano per sostentarsi ma anche per riequilibrare emozioni, per rispondere a emozioni. Stimolare la consapevolezza del legame tra cibo e emozioni significa cogliere in tempo gli indicatori che anticipano l’esordio di un dca e favorire gli esiti di eventuali percorsi di cura. La consapevolezza – conclude la psicologa – è uno scudo di protezione”.
Ma mentre si comincia a riflettere sulla prevenzione dei disturbi del comportamento alimentare, una metanalisi internazionale pubblicata su Lancet Psychiatry ha indagato l’efficacia delle cure contro l’anoressia. In particolare della terapia cognitivo comportamentale, degli approcci familiari, dei trattamenti psicodinamici e di altri come il Maudsley (MANTRA) e la gestione clinica di supporto specialistica (SSCM). La conclusione degli autori del paper, un team di ricercatori e medici che hanno scandagliato 13 studi randomizzati controllati per un totale di 1049 pazienti, è stata che alcune terapie hanno un beneficio modesto per i pazienti e che i diversi trattamenti non differiscono in modo significativo da quelli più tradizionali. Ma al di là dei risultati immediati, che pure sono interessanti, il merito di questa pubblicazione sta anche nell’aver puntato un faro sul bisogno di rafforzare i dati e la ricerca in questo settore. “Questa analisi – ha detto infatti Andrea Cipriani, psichiatra dell’Università di Oxford e primo autore della pubblicazione – mette in luce le lacune nelle prove esistenti e l’urgente necessità di una maggiore e migliore ricerca sulle terapie psicologiche per il trattamento dell’anoressia. E’ particolarmente importante – ha aggiunto Cipriani – comprendere l’efficacia dei trattamenti disponibili per l’anoressia, visto che ha uno dei più alti tassi di mortalità per qualsiasi condizione psichiatrica”.
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